Imprese sociali e fondazioni – sintesi
0 commenti 28 Settembre 2007

Coordinatore: Gianpaolo Barbetta

Il presente workshop vuole proporre alcune riflessioni rispetto al dibattito sul tema della “innovazione sociale” nelle politiche di welfare nazionali. Dibattito che sembra rendersi necessario nel momento in cui la pubblica opinione e, di conseguenza, i policy maker, definiscono le attuali politiche di welfare non più sostenibili o non più riproponibili.
Il sistema Italia è un sistema paese “ricco”, in cui i servizi di welfare hanno raggiunto, dagli anni ’70 ad oggi, livelli di spesa mai conosciuti. Nell’ultimo decennio è però sensibilmente diminuito il consenso intorno all’aumento necessario del prelievo fiscale per sostenere l’aumento o il mantenimento degli attuali servizi di welfare; ciò anche causa della pessima reputazione del macchina “statale” nel suo fungere da ente erogatore. In generale c’è una forte pressione per passare da politiche di “welfare risarcitorio” (o di mera distribuzione) a politiche di “welfare meritoro” (incentivi e strumenti affini).
La non espansione delle risorse economiche a favore dei servizi pubblici rende quindi evidente l’esigenza di sperimentare radicali modifiche nel sistema tradizionale di welfare, con l’obiettivo di aumentarne l’efficacia e l’efficienza senza aumentarne i costi. Il panorama si compone di bisogni sociali sempre più complessi e più vasti, di fronte ai quali non basterebbe, ammesso fosse possibile, rispondere con il semplice aumento delle risorse destinate: diviene invece necessario rispondere alla complessità dei nuovi bisogni sociali con una forte spinta verso la cossi detta “innovazione sociale”. Innovazione che sia al contempo organizzativa (nei soggetti coinvolti nell’erogazione dei servizi), di reperimento e distribuzione delle risorse (allargando la platea dei soggetti finanziatori e finanziati) e, infine, innovazione culturale (al fine di migliorare prassi, metodi e linguaggi).
Le domande principali cui il dibattito cerca di dare risposta sono le seguenti:
Come sostenere e promuovere l’innovazione sociale? Chi sono i soggetti che possono promuoverla? Che caratteristiche ha? E soprattutto, l’innovazione sociale è una caratteristica congenita dell’impresa sociale? Se si, da cose deriva? Dalle caratteristiche strutturali-organizzative? L’impresa sociale è innovativa per definizione? Probabilmente no, e allora quali sono le caratteristiche che la rendono tale? Quale forma di vantaggio comparato, rispetto ad altre tipologie di impresa, l’impresa sociale può sfruttare per proporre innovazione sociale? E tra queste, le fondazioni che ruolo promotore possono ricoprire?

Per iniziare a rispondere a questi interrogativi è forse utile partire da una precisazione culturale: la categoria dell’agire economico dell’impresa deve ancora abituarsi al suffisso “sociale”. La responsabilità sociale d’impresa è un tentativo di riunire i concetti sopraccitati, e questo contribuisce all’innovazione sociale, perché premia comportamenti innovativi, virtuosi, pur essendo un premio “postumo”, una sorta di rinforzo di comportamenti ritenuti positivi.
Rischio, responsabilità, riflessività: tre concetti che sintetizzano le necessità culturali, ancor prima che organizzative, che presiedono l’innovazione, la sperimentazione e la creatività. Può il soggetto pubblico avere in sé questi concetti? Difficile. Può averli l’impresa sociale? Probabile. Possono appartenere alle fondazione (in particolare le grant-making)? Dovrebbero.
E’ possibile quindi affermare che laddove la crescita manageriale non coincida solamente con la crescita della burocrazia (intesa come agire codificato), allora ci può essere innovazione. E in questo le fondazioni possono, per propria natura, giocare un ruolo importante, sostenendo i manager virtuosi.
Il problema si sposta allora su come favorire solide partnership tra fondazioni e imprenditori sociali, che spesso provengono da un background culturale diverso, non hanno lo stesso linguaggio, gli stessi obiettivi. Spesso le imprese sociali nuove, piccole, in difficoltà (proprio quelle che fanno maggior fatica a interloquire con le fonazioni) nascono per rispondere a nuovi bisogni, per proporre quindi innovazione sociale. Come metterle in rapporto con le fondazioni?
Per facilitare il rapporto tra imprese sociali e fondazioni, si rendono necessarie reti di fondazioni in cui scambiarsi le diverse letture che ciascuna ha del tessuto imprenditoriale locale, per accordare obiettivi, strumenti e modalità con cui leggere e fasi leggere dalle imprese sociali. La logica della connessione tra fondazioni e imprese sociali sta forse nell’abitare, ciascuno a suo modo, le reti che la comunità offre, creando e favorendo potenzialità nuove: mobilità di risorse umane prima non rintracciate, nuove risorse, nuove, idee.. Questo è il terreno fertile comune per una partnership tra fondazioni e impresa sociale che favorisca l’innovazione sociale (ossia la capacità di rispondere a nuovi bisogni utilizzando nuove risposte).
Per favorire innovazione sociale è quindi possibile, forse auspicabile, partire da una cosa semplice: mettere insieme, in relazione una serie di pezzi che fanno già parte della realtà sociale: questo processo non è, ma favorisce, innovazione sociale. Le fondazioni possono permettersi azioni dimostrative con cui mostrare (finanziandole) le novità proprie dell’innovazione sociale, che poi il sistema delle imprese sociali farà proprio. Se la fondazione si limita all’erogazione e alla donazione non fa innovazione, se non fa proprio l’obiettivo di stimolare la “rete”, di stimolare la capitalizzazione, di stimolare la sperimentazione e la “visione” sul lungo periodo delle imprese sociali, non fa innovazione, permette solo la sussistenza di imprese che, altrimenti, farebbero fatica a rimanere sul mercato. Se quella indicata è una delle strade possibili per leggere e promuovere innovazione sociale, dobbiamo anche rilevare quanto oggi sia difficile e rara la co-operazione organica tra imprese sociali e fondazioni.
Un altro soggetto, intercettato sia dalle fondazioni che dalle imprese sociali, in grado di contribuire all’innovazione sociale è il volontariato. Se la “burocrazia” la “strutturazione” sono nemici dell’innovazione, il volontariato può avere un ruolo propositivo (ma non ancora innovativo, perché non formalizzato) quale soggetto che crea stimolo e flessibilità per sperimentare nuove prassi e nuove risposte ai bisogni sociali. Ma quanto le fondazioni sono in grado di “leggere” il messaggio innovativo del volontariato? (Quali i bandi appositamente formulati per il volontariato? Su che tematiche). E le imprese sociali tengono in considerazione il volontariato? Dalla nuova legge quadro non si direbbe, anche se nella realtà c’è qualche speranza di rapporto tra imprese sociali e volontariato, grazie soprattutto al rapporto “storico” con la cooperazione. Da tenere però presente che il volontariato, nell’ultimo decennio, sta velocemente modificando la sua composizione e le sue competenze.
Le politiche sociali possono fungere da stimolo all’innovazione sociale? La 328 è forse un esempio di innovazione nel rapporto tra pubblico e privato, anche se la forza del primo tende a diminuire la capacità innovativa del secondo. Non è forse innovazione un ente pubblico che lascia alle organizzazioni del privato sociale il compito di coordinare, decidere, erogare quei servizi fino a ieri gestiti direttamente dalla pubblica amministrazione? Verrebbe da rispondere di si, anche se poi ben sappiamo che la reale applicazione della 328 ha in molti casi deluso le aspettative, frenando, più che promuovendo, l’autonomia dei soggetti (e quindi la loro capacità di promuovere innovazione sociale). Tuttavia la 328 ha lasciato in eredità la consapevolezza che ci dev’essere una responsabilità comune del benessere sociale, per aumentare il quale è necessario un dialogo meritorio tra soggetti diversi (pubblico, fondazioni, i.s., volontariato), i quali, se vogliono proporre innovazione sociale, devono riconoscere i loro diversi linguaggi e trovare ponti per collegare luoghi fino a ieri scollegati (burocrazia, mercato, socialità). Ancora una volta tale consapevolezza, tali collegamenti, si creano quando si “abita” il proprio territorio, ossia quando ciascun soggetto è in grado di coordinarne le risorse, leggerne i bisogni, attivare le soluzioni più efficaci ecc.
Le fondazioni possono avere in questo un ruolo assai importante, a patto che capiscano l’importanza di promuovere e sostenere la ricerca e la sperimentazione (specie sul fabbisogno sociale), invece di perpetuare la semplice erogazione o il sostegno di singole idealità (l’Africa, i bambini, ecc..). Le fondazioni faticano ad accollarsi il bene comune, che in sostanza vuol dire ricercare quali sono i fabbisogni del proprio territorio e, soprattutto, capire quale soggetto, tra quelli presenti, è in grado di soddisfare il fabbisogno nel modo migliore. La compartecipazione al bene comune è dunque innovazione sociale, nello stesso momento in cui permette a soggetti prima esclusi (o marginali) di partecipare alla costruzione della realtà sociale.
L’impresa sociale può partecipare a tale costruzione, ha in sé alcuni caratteri di sperimentazione e innovatività, accompagnate anche da prassi di auto-valutazione, cosa che per esempio le politiche sociali raramente hanno, o fanno molta fatica ad avere.
Un ultimo soggetto, dopo l’ente pubblico, le fondazione il volontariato, in grado di proporre innovazione è l’imprenditore, ossia colui che intraprendente, sperimenta nuove prassi produttive con risorse private. Bene, tale figura è pressoché assente nel settore pubblico (non inganni la presenza di dirigenti e manager degli ultimi anni), mentre nelle fondazioni la loro presenza è distratta o episodica, spesso non organica. Nelle imprese sociali l’imprenditore dovrebbe essere presente, quello che mancano, o scarseggiano, sono le risorse messe a disposizione per le sperimentazioni, la ricerca, l’innovazione.
Ecco allora che si capisce ancora di più perché l’innovazione sociale nelle politiche di welfare diviene possibile solo a patto che ci sia compartecipazione di tutti i soggetti sopraccitati.
E i consorzi, così in crisi in questo periodo, non hanno forse in sé le capacità giusta per creare partnership, consapevolezza, valorizzazione del territorio, dialogo con soggetti diversi, porta aperta a nuovi stakeholder…. Tutte cose che abbiamo detto essere premesse dell’innovazione?

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