Impresa sociale per uno sviluppo equilibrato
0 commenti 29 Ottobre 2007

Marco Musella

“Presto o tardi sono le idee e non gli interessi costituiti a essere pericolosi sia in bene che in male”. Questa celebre frase conclude la Teoria generale di Keynes e dà, a noi che studiamo non profit ed economia civile, la speranza che prima o poi vi sarà un’attenzione nuova all’impresa sociale e un modo nuovo di orientare la politica economica così da favorire la crescita ed il consolidamento di un soggetto che molto può contribuire allo sviluppo.

Infatti, tante idee che circolano oggi nella riflessione di studiosi di varie discipline, economisti e non solo, vanno a braccetto con la tesi seguente: una impresa sociale più solida fa bene non solo a chi nell’impresa sociale è coinvolto come stakeholder interno (ad esempio, perchè vi lavora o perché consuma i suoi servizi), ma all’economia e alla società tutta.
Innanzitutto è tornato alla ribalta, anche degli studi economici, il tema dello sviluppo equilibrato: il benessere – economisti importanti hanno iniziato a parlare di nuovo, addirittura, di felicità – non è assicurato dalla semplice accumulazione di beni materiali, ma è legato a filo doppio anche alla consistenza di beni relazionali, alla capacità di una collettività di proteggere e valorizzare il suo patrimonio ambientale, storico e culturale. E le istituzioni, come le imprese sociali, che nascono dalla reciprocità – quindi non dal comando del Principe, né dall’interesse egoistico – sono un elemento fondamentale per l’intensificazione della rete di relazioni e per l’accumulazione di capitale sociale, ma, quindi, anche per la crescita economica e l’aumento della felicità.
Un secondo filone di ricerche che accresce la speranza di vedere riconosciuti spazi maggiori all’impresa sociale è rappresentata dal fiorire di studi che sottolineano il ruolo strategico dei territori, delle comunità locali e delle loro capacità di valorizzare le proprie risorse, soprattutto quelle specifiche, idiosincratiche (nel senso di peculiari ad un territorio). La storia dell’imprenditorialità sociale è una storia di iniziative, legate ai territori, volte dare valore a risorse e persone (talvolta le più deboli): riconoscimento, consolidamento e “manutenzione” delle reti di relazioni sociali, infatti, esaltano la capacità di una comunità locale di riconoscersi e di affrontare i propri problemi – anche quelli legati più strettamente alla sfera economica – e, per questa via, contribuiscono ad accrescere il benessere.
Se l’attenzione si sposta adesso sulle nuove frontiere di studi più microeconomici, ritroviamo altri importanti elementi che nutrono la speranza di vedere crescere l’attenzione per la imprenditorialità sociale.
Si vanno diffondendo studi che criticano i fondamenti dell’economia ortodossa contestando l’assunto dell’homo economicus. Altruismo e reciprocità vengono approfonditi in modo più sistematico e ne vengono declinate le implicazioni in termini di motivazioni dell’agire umano, di performance economiche efficienti, di natura e ruolo delle istituzioni intermedie. La nuova prospettiva di indagine sull’impresa, d’altra parte, se porta a dire che essa può ancora oggi esser vista come istituzione razionale (che persegue un obiettivo specifico ottimizzando le risorse), mette in evidenza anche che l’obiettivo può non essere il profitto (o il self-interest dei proprietari), ma un fine “sociale”. Queste riflessioni, unite a quella sulla reciprocità a cui ci si riferiva poco sopra, hanno ispirato gli studi sulla governance delle imprese e sulla responsabilità sociale.
Lo studio dell’impresa – di cosa e come produce – ha aperto, inoltre, altre interessanti prospettive di analisi: quali sono gli incentivi più adatti a favorire l’efficienza dei processi produttivi? Come essi vanno differenziati a seconda del tipo di output che le imprese producono? Anche in questo caso, le ricerche hanno mostrato che imprese sociali presentano elementi di peculiarità interessanti: esse producono beni immateriali ad alto contenuto relazionale, esibiscono strutture di incentivi originali e sembrano in grado di valorizzare le motivazioni dei lavoratori più di altre imprese.
Questi ed altri filoni di ricerca dicono della abbondanza di studi che danno oggi fondamento all’idea che un impresa sociale più autonoma e più solida è utile allo sviluppo. C’è solo da augurarsi che anche le istituzioni pubbliche e la politica se ne accorga e non operi – nei fatti e al di là delle parole – per la marginalizzazione economica e sociale di un fenomeno tra i più promettenti degli ultimi 20 anni.

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