I gatti nel sacco
0 commenti 18 Settembre 2012

Abbiamo ricevuto, e volentieri pubblichiamo, le note di Adriano Cataldo stagista presso Euricse e accompagnatore di Jonathan Bland durante la sua permanenza in Italia, con un importante tappa al Workshop Iris Network.

Essere in quattro gatti significa essere in pochi. Soprattutto significa essere pochi, ma non necessariamente buoni.

Una metafora che può essere dibattuta, figlia di una quattrogiorni di eventi (è raro trovare un’idea e portarla avanti per giorni, lungo vari eventi) dedicati all’impresa sociale, tra Milano (11 settembre, teatro Elfo), Trento (12 settembre, Sala Affreschi della biblioteca comunale) e Riva del Garda (13 e 14 settembre, Workshop sull’impresa sociale).

Lo spunto è venuto da Jonathan Bland (presente a tutti gli eventi prima citati): “non si può pretendere di mettere alcuni gatti in un sacco, scuoterlo e aspettare che dicano miao assieme”. In tal senso, riferendosi alla nascita della Social Enterprise Coalition, ha evidenziato la necessità di individuare un oggetto comune, trovare il modo di diffonderlo facendo lobby, come prerogativa della proposta di legge sull’impresa sociale nel Regno Unito. Successivamente, grazie al ruolo “non partitico, ma organizzativo” di un membro della camera dei Lords, il discorso era pronto. Quantomeno nel caso del Regno Unito.

Il problema della rappresentanza, seppur forse marginale è stato posto anche da Marco Morganti, amministratore delegato di Banca Prossima, assieme a quello dell’efficienza.

Volendo riprendere la metafora dei gatti, si potrebbe aggiungere il problema delle scatolette di cibo per gatti. I fondi, per intendersi. Sempre Morganti ha detto chiaramente “per fortuna che c’è l’Europa”. Il riferimento alla Social Business Initiative è da considerarsi un corollario. La grande partita dei fondi strutturali si gioca su una serie di assi che van definiti.

Prendendo il discorso alla lontana, in uno dei laboratori del fuori wis, Roberto Randazzo e Roberto Ambrosio di Unicredit Foundation mettevano in risalto come molti imprenditori sociali peccassero di “timore del denaro”, soffrendo di una vera “mancanza di economics” nel business plan. Una falla organizzativa del genere potrebbe essere tappata dai vari incubatori, supportati a livello locale da realtà investitorie non bancarie, come l’esempio offerto dai Business Angels.

Cosa fare, però, in quei territori dove queste realtà mancano, dove il tessuto territoriale soffre? Tornando a Morganti, la rappresentanza deve essere anche “scomoda”. La capacità di fare lobby dovrebbe essere forse più locale. Con la necessità di superare arcaiche distinzioni e resistenze, come evidenziato dagli interventi al seminario di Jonathan Bland, il 12 settembre a Trento. Una soluzione, che sembra richiamare la proposta di Riccardo Bonacina, nel corso del convegno al teatro Elfo di Milano, l’11 settembre, di creazione di un “distretto del bene comune”. Una proposta che permetterebbe forse di implementare la modifiche alla legge italiana sull’impresa sociale, proposte da Carlo Borzaga nel corso dell’evento milanese. Un aspetto che definisce forse la differenza “tra una legge aderente alla realtà (quella inglese) e una che la ingabbia (quella italiana)”, evidenziata da Bonacina durante la sessione plenaria del Worshop di Riva del Garda. Valorizzazione del locale, quindi. Ma soprattutto, mille e poi mille distretti del bene comune. Questo valorizzerebbe le expertise territoriali, favorendo l’ancoraggio ai fondi europei. La partita si gioca, naturalmente, ora.

In Italia ci sono forse troppi gatti, o troppo pochi e le scatolette ci sono, ma non della stessa qualità. Se esiste un modo di trovare scatolette che possan soddisfare tutti, serve un buon equilibrio tra rappresentanza, efficienza, ma quel che deve esser tenuto di conto è l’impatto sociale dell’impresa. Un aspetto transnazionale, transdisciplinare, ma soprattutto, una delle cose che conta di più in fatto d’imprenditoria sociale.

commenti