Terzo settore: dove si nasconde il diavolo
0 commenti 1 Aprile 2015

La scelta di non fare ostruzionismo da parte delle opposizioni (del Movimento 5 Stelle in particolare) e la (conseguente) decisione della conferenza dei capigruppo di procedere a una vera e propria discussione in sede parlamentare, consente di rileggere, ancora una volta, il disegno di legge delega di riforma del terzo settore, dell’impresa sociale e del servizio civile. Una rilettura pragmatica, centrata sui dettagli; articoli e commi che possono fare la differenza per migliorare un quadro normativo che, dalla discussione in commissione, è uscito più consistente sul piano del riordino, ma forse meno efficace sul fronte dell’innovazione delle forme giuridiche e dei campi di intervento.

Ecco quindi una lista di possibili modifche puntuali che riguardano l’impresa sociale. L’elenco, naturalmente, può essere corretto e integrato commentando questo post o interagendo sui social media.

Articolo 3, comma 1, lettera d) nel quale si prevede “che alle associazioni e alle fondazioni che esercitano stabilmente e prevalentemente attività d’impresa si applichino le norme previste dai titoli V e VI del libro quinto del Codice civile, in quanto compatibili”; si tratta di una previsione importante perché può arricchire il panorama delle imprese sociali, guardando a forme giuridiche nonprofit diverse dalle cooperative sociali; per facilitare questo processo di emersione si potrebbe prevedere che per questi soggetti si applichi la disciplina in tema di impresa sociale adottando un parametro preciso, ovvero che il 70% dei ricavi venga realizzato all’interno dei settori di attività indicati dalla normativa attuale sull’impresa sociale (art. 2 comma 3 dlgs 155/06).

Articolo 6, comma 1, lettera b) che prevede “l’ampliamento dei settori di attività di utilità sociale, aggiungendo ai settori previsti dal decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155, anche quelli del commercio equo e solidale, dei servizi al lavoro finalizzati all’inserimento dei lavoratori svantaggiati, dell’alloggio sociale e dell’erogazione del microcredito da parte di soggetti a ciò abilitati in base alla normativa vigente e individuazione dei limiti per lo svolgimento di attività commerciali diverse da quelle di utilità sociale“; l’indicazione precisa dei nuovi campi di attività rischia di irrigidire lo sviluppo dell’impresa sociale costringendo ad aggiornamenti successivi (non semplici da realizzare); meglio quindi tornare all’impostazione originaria del disegno di legge laddove si prevedeva in modo più semplice “l’ampliamento dei settori di attività di utilità sociale e individuazione dei limiti di compatibilità con lo svolgimento di attività commerciali diverse da quelle di utilità sociale”.

Articolo 6, comma 1, lettera c) riguarda l’annosa questione della ripartizione degli utili e della remunerazione del capitale sociale affermando che queste modalità sono da “assoggettare a condizioni e limiti massimi, differenziabili anche in base alla forma giuridica adottata dall’impresa, in analogia con quanto disposto per le cooperative a mutualità prevalente, che assicurino in ogni caso la prevalente destinazione degli utili al conseguimento degli obiettivi sociali“. E’ evidente in questo passaggio l’equilibrismo del legislatore tra l’esigenza di differenziale i “cap” alla distribuzione e alla remunerazione tra i vari modelli di impresa sociale e l’esigenza di rimarcare il modello cooperativo come bechmark a cui ispirare la nuova norma. Ma così congegnata la norma rischia di scontentare un po’ tutti; meglio quindi una scelta di campo più definita: o il rimando esplicito al modello cooperativo o l’introduzione di limiti differenziali che valorizzino modelli di impresa sociale che si definiscono per l’intensità di capitale e la conseguente adozione di schemi “low profit”.

Articolo 9, comma 1, lettera i) dove si prevede che “promozione dell’assegnazione in favore degli enti di cui all’articolo 1, anche in associazione tra loro, degli immobili pubblici inutilizzati, nonché, tenuto conto della disciplina in materia, dei beni immobili e mobili confiscati alla criminalità organizzata, secondo criteri di semplificazione e di economicità, anche al fine di valorizzare in modo adeguato i beni culturali e ambientali“. Il riferimento al solo articolo 1 della legge sembrerebbe escludere le imprese sociali normate all’art. 6; se questo fosse vero (ed in effetti nel comma precedente dove si istituisce il fondo rotativo si fa esplicito riferimento alle organizzazioni di cui ai due articoli 1 e 6) si trattarebbe di una importante limitazione per le imprese sociali come attori della rigenerazione di asset comunitari.

La discussione è aperta… e il voto imminente.

Hochhaus

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