Ecco la nuova onda sociale
0 commenti 26 Novembre 2015

A caccia di buone idee (e innovazione). Ecco la nuova «onda» sociale

Anna Puccio (Fondazione Italiana Accenture)
Flaviano Zandonai (Iris Network)
Pubblicato su Corriere Sociale

A new social wave” è stata una bella sfida per Fondazione Italiana Accenture e Iris Network. Bella anche perché, ormai da tre anni a questa parte, cerchiamo intenzionalmente di rinnovarla. Questo contest, infatti, svolge non solo la classica funzione di raccolta e valutazione di buone idee di innovazione sociale, ma vuole essere, più in generale, una specie di “sensore” rispetto alla capacità di intercettare e valorizzare queste innovazioni da parte delle organizzazioni più consolidate dell’imprenditoria sociale nazionale. Tradotto in termini gestionali significa promuovere la competizione non solo sul lato dell’offerta di innovazione (suscitare nuove idee), ma anche su quello della domanda, favorendo, in sede di premio, il matching più efficace.

Non è facilissimo, perché, sempre a proposito di “sensoristica”, la competizione fa emergere certo le potenzialità ma anche i limiti dei famigerati “ecosistemi” di innovazione e imprenditoria sociale, ormai stracitati come un mantra anche da parte di istituzioni come la Commissione Europea. Una specie di ciambella di salvataggio per politiche di sviluppo chiamate a catalizzare risorse di varia natura e provenienza che però sono sparse in un raggio sempre più ampio. Il riferimento più immediato va alle risorse economiche (donative e finanziarie) riconducibili al campo dell’imprenditoria sociale. Un ammontare considerevole guardando alle risorse dedicate – filantropia, fondi europei, finanza pubblica e privata – ma anche a quelle che, pur non avendo come esplicito riferimento l’impresa sociale, sono comunque strettamente legate alla natura della loro produzione ovvero beni e servizi di interesse collettivo. E così per i 200 milioni del nuovo fondo FRI dedicato alle “imprese dell’economia sociale” presentato al Workshop dell’Impresa Sociale di Riva del Garda da parte del sottosegretario al welfare Luigi Bobba, se ne potrebbero aggiungere altri 200 messi a disposizione dal Ministero dello sviluppo economico grazie a un nuovo bando che – riprendendo il titolo di un fortunato intervento di Renzo Piano sul domenicale del Sole24Ore – finanzia il “rammendo delle periferie” grazie a interventi di rigenerazione urbana basati su elementi quali “riduzione dei fenomeni di marginalizzazione sociale” e “miglioramento del tessuto sociale attraverso servizi sociali ed educativi”. Anche se in termini formali ad essere eligibili sono gli enti pubblici locali, chi altri, se non l’impresa sociale, potrebbe essere in grado di rispondere concretamente a queste sfide?

Occorre quindi lavorare, e molto, su quella che i ricercatori chiamano la “capacità di assorbimento” (absorptive capacity) delle imprese sociali, ovvero “la capacità di riconoscere, assimilare ed utilizzare nuova conoscenza, soprattutto in relazione a processi di elaborazione dell’innovazione e che è influenzata dal bagaglio di esperienze capitalizzate dall’azienda o dal personale, dalla struttura organizzativa e dalle reti di relazioni”. Si tratta di trovare il giusto equilibrio per impedire la marginalizzazione dei processi innovativi confinati nelle “varie ed eventuali” senza innescare un vero cambiamento, ma, all’opposto, cercare di non eccedere con proposte e stimoli che per svariate ragioni – culturali, organizzative, gestionali – le imprese non sono in grado di discriminare e di processare, innescando così forme di idiosincrasia e banalizzazione dell’innovazione (ad esempio rispetto all’impatto delle ICT in campo sociale).

Ad essere particolarmente sollecitati in questa prospettiva sono gli incubatori di imprenditoria sociale e innovativa che sempre più numerosi nascono anche nel campo dell’economia sociale. E’ il caso, ad esempio, di Trentino Social Tank, l’incubatore delle cooperative sociali trentine che ha sostenuto la terza edizione di “A new social wave”, proprio con l’intento di veicolare le proposte emerse dalla competizione nel sistema imprenditoriale a cui fa riferimento, rigenerando così la classica attività di ricerca e sviluppo. Una prova rilevante anche per il futuro di queste infrastrutture di accompagnamento, affinché assumano un ruolo centrale negli ecosistemi, svolgendo, in parole povere, quella funzione di “hub” che spesso intitola la loro ragione sociale e sostanzia la loro missione. Se invece rimangono laterali è a rischio non solo la loro sopravvivenza, ma più in generale la possibilità di veicolare in maniera sistematica ed efficace innovazioni di prodotto e di processo che sono fondamentali per alimentare la propensione ad investire non solo per una crescita incrementale, ma per aprire un nuovo ciclo di vita dell’impresa sociale.

Potrebbe addirittura scaturirne un insegnamento utile anche al di fuori del campo sociale. E’ evidente infatti che il modello classico di incubazione che accelera i percorsi di startup in vista dell’intervento della finanza di soggetti terzi segna il passo a favore di modelli di stampo partenariale basati su forme di collaborazione/integrazione (in senso lato “cooperazione”) tra imprese esistenti e imprese nascenti in un rapporto dove si scambia rigenerazione (dei modelli di business e di prodotto/servizio) con sostenibilità (delle nuove intraprese). Questa opzione richiede agli incubatori di “cambiare pelle” soprattutto per quanto riguarda la loro funzione specialistica che, nel recente passato, è stata soprattutto interpretata in senso settoriale (tecnologico, ambientale e sociale).

Questo modo di lavorare potrebbe aver rallentato quei processi vitali di cross fertilization che invece sono alla base dell’innovazione? La specializzazione andrebbe reinventata in chiave funzionale. Lo ricordavano, con grande chiarezza, due startupper seriali sul blog “La nuvola del lavoro”, proponendo di creare incubatori che seguano più da vicino alcuni passaggi chiave dei processi di creazione d’impresa a prescindere dal settore, ad esempio tutto quello che riguarda l’e-commerce. Ecco, nel caso dell’imprenditoria sociale si potrebbe trovare una specializzazione nel trovare una propria via alla scalabilità del business sociale senza assumere in forma acritica lo scaling-up mainstream, ad esempio attraverso l’incubazione di rami aziendali finalizzati a sostenere i percorsi di crescita di un’imprenditoria sociale sempre più sollecitata a “impattare” positivamente sulle principali “sfide paese” (occupazione, coesione sociale, economia avanzata dei servizi, econmia della cultura e del turismo sostenibile, ecc.). Un’operazione win-win perché lo sviluppo dell’impresa sociale passa, in questo modello, dal sostegno a iniziative che, nella maggior parte dei casi, provengono da una popolazione giovanile caratterizzata da bisogni di lavoro, di protezione sociale e, non da ultimo, di protagonismo civile.

In questo senso il sistema premiante di “A new social wave” è esso stesso scalabile: risorse economiche, incubazione centrata sul matching con le aziende sociali, esperienza di volontariato di prossimità per farne un “garanzia giovani” imprenditoriale. Basterebbe, e non sarebbe poi così difficile, costruire una rete di incubatori che fanno proprio questo schema di accompagnamento aggiungendo un ulteriore ingrediente, cioè la localizzazione degli interventi (e dei relativi investimenti). Una dimensione, quella locale, che è costitutiva dell’idea di impresa sociale e che sollecita la scalabilità non solo verso l’alto – wide -, ma anche nel senso della profondità – deep – degli interventi.

Blick auf eine Achterbahn im Freizeitpark Linnanmki (Helsinki)

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