Imprese sociali e fondazioni: come si attraggono e si investono risorse aggiuntive per promuovere l’innovazione sociale
0 commenti 19 Settembre 2007

Gian Paolo Barbetta – Università Cattolica di Milano

1. Il welfare e oltre: alcune tematiche emergenti

Alcune premesse piuttosto tradizionali, ma non per questo meno rilevanti.
a) La società ed i percorsi di vita individuali si sono fatti sempre più complessi, ma il sistema di welfare pubblico italiano è rimasto molto simile a quello di una società industriale: basato sui trasferimenti monetari (“risarcitorio”), su servizi standardizzati, poco orientato a trattare con persone che mostrano bisogni mutevoli ma orientato piuttosto a “utenti tipici” che mostrano bisogni statici, poco “promozionale” (cioè poco orientato a responsabilizzare e restituire autonomia).
b) Ci sono dunque molti “bisogni insoddisfatti”, alcuni dei quali (ad esempio quelli di natura formativa, di training professionale, di custodia, di assistenza, ecc.) trovano talvolta risposte di “mercato” – specie quando l’utenza è in grado di esercitare una domanda pagante -, mentre altri spesso non trovano alcuna risposta.
c) Il welfare italiano è anche poco “sperimentale”, cioè poco propenso a gestire in modo sistematico iniziative volte a modificare policies consolidate: quando si innova si fatica comunque a comprendere se i risultati ottenuti sono positivi o no, se le pratiche possono essere estese, ecc..
d) Il welfare pubblico ha raggiunto limiti di spesa che paiono difficilmente valicabili, sia per la necessità di riequilibrare i conti pubblici, che per una obiettiva difficoltà a fare salire ulteriormente la pressione fiscale.
e) Fuori dal welfare più tradizionale, anche in altri settori di “interesse collettivo” (o comunque cruciali per il “benessere” della comunità e degli individui, come ad esempio i settori dell’ambiente e della cultura) si iniziano a sviluppare esigenze (domande, consumi, sensibilità) non facilmente trattate dal sistema delle imprese tradizionali (poco remunerative, con tecnologie poco standardizzate, ecc.) e che esulano spesso anche dall’agenda pubblica. In questo campo si assiste talvolta ad innovazioni significative, anche se esse faticano a “giungere a sistema”, così da condurre in molte circostanze a “riscoperte plurime” della stessa novità, con un certo dispendio e spreco di risorse.

2. Che cos’è la “innovazione sociale”?

A fronte di questi semplici “fatti stilizzati” sorge dunque quasi automatica l’esigenza di avviare e sperimentare alcune radicali “innovazioni sociali”, sia nel nocciolo duro del sistema di welfare che in altre parti del complessivo sistema di creazione di benessere del nostro paese.
Tuttavia, per evitare di essere generici, vale la pena di porsi una domanda: esistono alcune caratteristiche che identificano la innovazione sociale? Se sì, quali sono?
Non è difficile individuare alcune caratteristiche generali (facilmente condivisibili) della innovazione sociale, come ad esempio il fatto che essa sia tale se produce risposta ad un bisogno insoddisfatto, oppure se migliora (in termini di qualità e/o di costo) la risposta ad un bisogno già affrontato da qualche azione pubblica o privata.
Più complesso è comprendere se esitano altre caratteristiche – meno ovvie – che consentano di identificare, riconoscere e definire con maggiore precisione che cosa sia una innovazione sociale nel campo del welfare o in aree ad esso vicine. Possiamo ritenere che sia innovativo ciò che è promozionale, cioè che aiuta a ridurre il livello personale di dipendenza dalla policy? Possiamo ritenere innovativo ciò che è tendenzialmente autosostenibile, cioè non dipende strettamente da finanziamento pubblico? Che altro?
Interrogarsi sulle caratteristiche della innovazione sociale non è un puro esercizio definitorio, ma un passaggio cruciale per capire quali siano i soggetti che con maggiore probabilità possono creare innovazione sociale.
3. Le imprese sociali promuovono l’innovazione sociale?

Il titolo del workshop dà per scontato che imprese sociali e fondazioni operino per promuovere innovazione sociale.
Pare però corretto domandarsi se questa sia una caratteristica intrinseca e congenita di un soggetto come l’impresa sociale (e la fondazione, ma su questo torniamo al prossimo punto), eventualmente derivante dal fatto che questa particolare forma organizzativa potrebbe disporre di caratteristiche strutturali tali da indurla a comportamenti innovativi (ogni impresa sociale innoverebbe dunque “per definizione”); oppure se – al contrario – esistano invece imprese sociali innovative ed altre che non lo sono per nulla, non tanto perché vorrebbero innovare ma non riescono a farlo, ma semplicemente perché ciò non rientra nella loro funzione obiettivo (sono contente di svolgere la loro funzione di produzione di beni o servizi “normali”).
Perché le imprese sociali dovrebbero promuovere innovazione sociale?
E’ possibile pensare che una particolare forma “giuridico/organizzativa” presenti vantaggi comparati rispetto ad altre nello svolgimento di una simile attività?
L’impresa sociale è una di queste forme e dunque gode di questi vantaggi?
Quali sono?

4. Le fondazioni promuovono l’innovazione sociale?

Sul ruolo delle fondazioni (in particolare di quelle grant-making) nel sostegno della innovazione la letteratura ci offre qualche appiglio e qualche riflessione più solida. Apparentemente, le fondazioni godono di caratteristiche strutturali (patrimonio proprio significativo, natura privata, nessuna necessità di remunerare azionisti o partecipanti, possibile adozione di ottiche di lungo periodo, ecc.) favorevoli a fare sì che il sostegno alla innovazione (in particolare nella prospettiva della realizzazione di “effetti dimostrativi”) divenga la loro specifica missione.
Tuttavia, non è difficile vedere come molte fondazioni non operino assolutamente in questa prospettiva, sia perché hanno legittimamente scelto una missione differente, sai perché – pur avendo dichiarato una “missione innovativa” – diversi fattori le inducono ad orientare diversamente le loro scelte (si pensi ad esempio ai problemi legati alla scomparsa del fondatore, alla burocratizzazione che può derivare dallo sviluppo della fase “manageriale” della fondazione, derivante soprattutto dalla scarsità di incentivi del management, ecc.). Il problema può poi essere particolarmente rilevante se – come accade per le più significative fondazioni italiane, almeno dal punto di vista patrimoniale, come le fondazioni di origine bancaria – l’origine dell’ente non risiede nella volontà di un fondatore (solitamente sensibile al tema della innovazione) ma piuttosto in una qualche policy pubblica.
Diviene dunque legittimo chiedersi se quella tra fondazioni ed imprese sociali sia una partnership opportuna, oppure se non esistano altri soggetti che possano facilitare le imprese sociali nel perseguimento di una funzione di innovazione sociale.

5. Come si sostiene l’innovazione sociale?

Supponendo che imprese sociali e fondazioni possano essere partner in un processo innovativo, rimane da chiedersi quali possano essere gli strumenti più adatti attraverso cui questa partnership si possa esercitare.
Gli strumenti a disposizione delle fondazioni sono, in linea di principio, di quattro tipi:
1) erogazioni a fondo perduto
2) acquisto di quote di capitale
3) program related investment
4) assistenza tecnica.
Quali possono essere i vantaggi e gli svantaggi dei diversi strumenti, alla luce dell’obiettivo della innovazione (es. flessibilità del grant, problemi di lock-in e di mancanza di strumenti negoziabili – con i connessi rischi di inefficienza – per il capitale, ecc.)?
Esistono esperienze significative, buone pratiche che possono essere utilizzate come paradigma?
Il quadro normativo e regolamentare è adatto all’uso dei diversi strumenti? Come andrebbe eventualmente modificato?

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