Impresa Sociale 4/2007: Le imprese sociali verdi in bilico fra lavoro, ambiente e comunità
0 commenti 13 Marzo 2008

Giorgio Osti

L’invito della redazione di Impresa Sociale di occuparsi di tutela e servizi ambientali è stato un bell’impulso a ragionare su aspetti della galassia nonprofit che solitamente vengono trascurati. La competenza ambientale ha un carattere trasversale e per tale ragione finisce per perdere di pregnanza in una società che premia la specializzazione spinta delle organizzazioni. Sembra quasi che vi sia una regola generale, per cui solo chi riesce a proclamare la propria specificità e ad argomentarla, dimostra di esistere e trova una collocazione dignitosa nella società. Chi non ci riesce o ha una vocazione intersettoriale è destinato all’oblio o all’insignificanza.
Anche il mondo nonprofit pare segnato dalla regola della specializzazione, per cui tratta la questione ambientale o come un fattore marginale oppure come un elemento su cui fondare la propria specifica identità. Invece, in questo numero della Rivista le carte vengono rimescolate analizzando un oggetto spurio chiamato “imprese sociali verdi”. L’accostamento fra i termini suggerisce qualche domanda. È possibile conciliare un’impresa economica efficiente con il lavoro di persone svantaggiate e con la produzione di servizi ambientali, solitamente senza prezzo? È possibile fare le tre cose appena menzionate ed essere autonomi dalle erogazioni liberali o dai contributi pubblici, in altre parole, sostenersi con le proprie forze?
Le antinomie che un’impresa sociale verde deve superare sono molte, così tante che potrebbe sembrare impossibile una sia pur minima realizzazione pratica. A mala pena le cooperative sociali si salvano creando un circuito virtuoso fra servizi puntuali alle persone in difficoltà, professionalità spinta in senso relazionale, inserimento in reti sociali ed istituzionali sensibili. Ma se questo circolo virtuoso si è affermato, pur con molta precarietà, l’inserimento della variabile ambientale rende tutto più complicato.
I servizi ambientali sono infatti allo stesso tempo molto costosi e poco visibili: controllare la qualità delle acque ogni giorno costa molto, ma è un servizio che rende poco almeno nell’immediato. L’utente non se ne accorge, preferisce comunque pagare il meno possibile il bene acqua ed è tentato di fare pagare il servizio agli altri. Per queste ragioni i servizi ambientali sono spesso appannaggio di enti pubblici che si sostengono con il prelievo fiscale o con tariffe obbligatorie. Un’impresa sociale potrebbe fare questo tipo di servizi solo in base ad una precisa delega dell’ente pubblico. E infatti alcune attività come l’educazione ambientale, la gestione di eco-piazzole dei rifiuti o la custodia di siti naturali vengono affidati ad imprese sociali.
Tuttavia, in tali servizi la precarietà sia contrattuale che professionale è molto evidente. Il tutto fa pensare che nel settore ambientale non vi siano sbocchi interessanti per le imprese sociali. In realtà, il numero monografico della Rivista ha voluto sfidare questo destino di marginalità. Anche se i numeri sono tutti a dimostrare la scarsa diffusione delle imprese sociali verdi nel nostro paese, i saggi qui raccolti testimoniano una straordinaria vitalità e capacità innovativa di alcune di queste. Si tratta di imprese pilota, di avanguardie imprenditoriali, il cui sviluppo su larga scala è ancora di là da venire.
Vi sono molte incertezze, non ultime quelle normative, che rendono difficile una previsione sulle tendenze future. Per ora possiamo evidenziare solo due elementi presenti, in diversa forma, negli articoli: il primo concerne il fatto che il problema ambientale è destinato ad acuirsi. Non vi sono purtroppo segnali di controtendenza ad un uso crescente e disordinato delle risorse del pianeta. Gli strumenti tradizionali – un mix di regolazione ed incentivi – non bastano, perché il problema è anche sociale. Bisogna infatti pensare ad una diversa condivisione dei beni e servizi finora fruiti attraverso la proprietà individuale.
L’impresa sociale ha una competenza straordinaria nel campo delle relazioni e della condivisione dei servizi. Questa sua peculiarità non è per ora sfruttata in alcun modo, anzi non vi è neppure consapevolezza della sua portata in campo ambientale. Il primo elemento quindi, se adeguatamente tematizzato e raccolto dalle istituzioni, può diventare una chance di sviluppo per le imprese sociali verdi. Il secondo elemento comune ai vari saggi riguarda per così dire il fronte interno, l’organizzazione di tali imprese. I criteri ideali sono, come è noto, l’autonomia imprenditoriale e la democrazia interna.
Tali criteri sono messi in crisi da tensioni varie: da un lato, la dipendenza da finanziamenti pubblici e, dall’altro, dalle differenze spesso marcate di competenze gestionali fra i soci della compagine. L’occuparsi di ambiente non è un toccasana per questi problemi. Anzi, per quanto si è detto poco sopra: i servizi ambientali sono spesso di natura pubblica e quindi erogabili solo in base ad una stretta delega dell’ente pubblico. Inoltre, sono servizi ad alto contenuto professionale, per cui acuiscono le disparità eventuali fra soci. Tuttavia, in questo “handicap” vi è una sfida che vale per tutte le imprese sociali, non solo per quelle verdi.
La complessità delle relazioni con l’esterno tipica di un’impresa che si occupa di “ambiente” impone di trovare sistemi di gestione interna particolarmente sensibili ai cambiamenti. Si tratta di un sistema omeostatico che deve continuamente ricalibrare le competenze, le relazioni, le posizioni di responsabilità. Certamente, questo può logorare o portare a soluzioni drastiche, ultrasemplificate; oppure può essere lo stimolo per architetture gestionali così innovative da far invidia ad imprese di ben altra grandezza e tradizione. Se ne rendono conto molte aziende profit le quali per operare proficuamente devono adottare molte misure sociali, con i propri dipendenti, con i residenti locali e con le strutture burocratiche.
Si tratta di ragionamenti che trovano riscontri non univoci nei testi qui riportati. In tutti però vi è la sensazione che l’ambiente stia offrendo nuove opportunità che le imprese sociali colgono con qualche resistenza. Per capire questo sono di grande utilità i testi di carattere introduttivo, pensati secondo una logica triadica (politica, economia, società). L’aspetto politico-organizzativo è sviluppato da Gianluigi Bulsei, che arriva, dopo un percorso analitico molto preciso e ricco, alla conclusione che le imprese sociali possono contribuire in modo determinante a nuove forme di policy più inclusive, mantenendo allo stesso tempo una propria peculiare autonomia nello spazio pubblico. Contribuiscono così alla formazione della governance di ambiti sempre più complessi e solcati da conflitti.
Anche Andrea Maccarini tocca lo stesso tema, accentuando gli elementi più spiccatamente sociologici dell’impresa sociale verde. Questi si basano sui concetti di originalità ed originarietà del privato sociale nel senso di un ambito che ha uno specifico modo di porre le relazioni (reciprocità) e risponde a bisogni di base della socialità umana. Le relazioni situate localmente, tipiche delle imprese sociali, sono la condizione per sviluppare quelle più astratte ed istituzionali.
Marco Frey e Giorgio Giorgetti toccano l’aspetto economico dell’impresa sociale verde ritenendo che essa rappresenti una realtà non ancora ben recepita in sede legislativa, ma capace di suscitare una revisione delle teorie e metodi gestionali attualmente in voga. Ciò è possibile grazie al fatto che nell’impresa sociale vi è una sintesi di molti aspetti considerati antinomici nelle teorie dell’organizzazione. In tal senso, la prospettiva di un’impresa “altruistica” è tutt’altro che fuori luogo.
Giorgio Osti cerca di mettere a frutto i diversi contributi teorici delineando una tipologia delle imprese sociali verdi. Si individuano così quelle semplici, quelle territoriali, quelle innovative e quelle comunitarie. I parametri per giungere alla tipologia sono, da un lato, la considerazione strumentale o meno dell’ambiente e, dall’altro, l’enfasi dell’impresa sociale sulla sola dimensione lavorativa od anche su quella residenziale. Si cerca quindi di collocare le varie forme di impegno delle imprese sociali verdi italiane dentro la tipologia.
Gli altri saggi toccano aspetti specifici e concreti dell’imprenditorialità ambientale. Nessuno degli autori però ha rinunciato ad alcune premesse teoriche grazie alle quali inquadrare compiutamente il materiale empirico. Giangiacomo Bravo e Matteo Villa analizzano alcuni casi in provincia di Brescia, un’area particolarmente adatta a verifiche empiriche perché ricca di tradizione cooperativa. Il quadro che emerge è in chiaro-scuro: diverse cooperative sociali o consorzi sono impegnati in segmenti poco innovativi dal punto di vista ambientale. Altri casi sono maggiormente focalizzati sui beni ambientali (ad esempio, bioedilizia) e comunque tutto il movimento ha forti potenzialità educative per quanto concerne la trasmissione di valori ecologici e di solidarietà sociale.
Giovanni Carrosio affronta il tema delle imprese sociali verdi in contesti marginali e rurali. Anch’egli si serve di una tipologia per orientarsi nella grande varietà di forme e significati che presenta un’area pur circoscritta come l’Appennino settentrionale. Così a partire da una comune base agricola, si possono trovare iniziative e sintesi molto varie sia in termini di valorizzazione delle risorse interne alle aree sia in termini di integrazione con le aree forti esterne.
Chiara Zanetti ha analizzato due cooperative sociali venete impegnate nel settore dei rifiuti. È una regione molto avanzata nel campo della raccolta differenziata forse anche per l’apporto originale di questo tipo di cooperative, che non si sono limitate ad eseguire compiti delegati dagli enti pubblici. I due casi selezionati si differenziano poi per aspetti della gestione dei rifiuti – l’una più centrata sulla raccolta, l’altra sul recupero – che rendono la comparazione reciproca illuminante.
Aurelio Angelini e Piergiorgio Pizzuto ci portano al Sud fra le cooperative che si sono impegnate a gestire i beni confiscati alle organizzazioni criminali. Qui l’impresa sociale manifesta in maniera quasi eroica non solo il suo potenziale economico, ma anche quello civile. Essa è in grado di avviare processi di cambiamento di tutta la società dimostrando che si possono creare solidi posti di lavoro e valorizzare ecologicamente i prodotti agricoli tipici.
Elena Battaglini prende in considerazione il caso di Roma; in un contesto segnato profondamente dalla modernità l’impresa sociale verde si trova impegnata prevalentemente su due fronti, quello delle energie alternative e quello dell’animazione delle aree verdi. Tali imprese nascono grazie ad un clima politico-istituzionale favorevole e attingono alle motivazioni profonde derivanti dalla militanza ambientalista dei propri membri. Ciò si riflette in modelli organizzativi ancora in fase di consolidamento, ma molto innovativi.
Nicola Mendini, Andrea Tomasi e Paolo Tonelli non presentano un caso concreto, ma un progetto: la creazione di una centrale a biomasse ed una rete di teleriscaldamento di un comune del Trentino. L’importanza dell’iniziativa sta in tre aspetti: l’ampio coinvolgimento degli stakeholder, la razionalizzazione dell’uso di una fonte energetica locale e l’utilizzo di una formula gestionale di tipo cooperativo. Il significato di fondo è chiaro: le rinnovabili sono un’occasione per creare una mirabile alleanza fra fornitori e fruitori di energia.
Il volume si chiude con il consueto Forum di testimoni; anch’essi, nel momento in cui sono stati contattati, hanno dichiarato di non essere esperti di imprenditorialità sociale coniugata in senso ambientale. Questo forse dà la misura dello sforzo intrapreso con il volume: non esistono conoscenze consolidate della materia; bisogna costruire un sapere riflesso sulle imprese sociali verdi. Il volume ha il merito di aver avviato il processo.

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